Un po’ caldo, un po’ freddo, soprattutto alla spalla.
Un pensiero ricorrente.
Un po’ chiudere gli occhi un po’ trovarli spalancati ad indovinare l’ora secondo le stelle che si vedono dal rettangolo nero della finestra.
Ma ecco, il vicino di sotto ha acceso le luci (si capisce dal chiarore che arriva da sotto le foglie dell’albero, che improvvisamente sembrano vive anche loro) e sta uscendo per andare al lavoro. Quindi sono le tre e mezza, più o meno. Chissà che mestiere fa il vicino di sotto.
Forse ho fame. No mi sembra di no. Sete? Boh, forse. La bottiglia dell’acqua è troppo lontana dal letto. Facciamo che non ho sete.
Potrei mettermi a finire quel lavoro che ho in sospeso da tre mesi. Ma riaccendere il computer significa che la notte è proprio finita, che è già giorno e che sono già in moto sul serio, e questi sono straordinari che nessuno mi paga. Anzi li pago io, in salute.
Forse se mi addormento lo sognerò.
Non voglio.
Mi fa male la spalla, porca miseria. Il cerotto va cambiato.
E’ un dolore tale che in confronto l’estrazione dell’ultimo dente del giudizio mi è sembrata uno scherzo.
Guardo fuori di nuovo. Il cielo è di un colore diverso. E’ blu, non è più nero. E’ blu, scuro ma blu. Mi restano forse tre ore utili di sonno.
Faccio apposta a non guardare l’ora, sennò mi do dell’imbecille.
Pensiero ricorrente.
Pensiero ricorrente.
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