venerdì 29 luglio 2011

La prima volta


La nuova libreria del mio quartiere è frequentatissima. Non ci speravo, quando hanno aperto, mi immaginavo la popolazione media del quartiere dove abito e proprio non ce la vedevo a ciondolare in libreria e a scegliere il romanzetto.
Invece quando passo c'è sempre qualcuno e dentro c'è fresco e penombra, e nessuno ti corre dietro, non squilla ogni cinque minuti il telefono, non c'è musica accesa.

La commessa mi chiama ormai per nome, non perché mi conosca particolarmente bene, ma perché ha fatto il corso preparto con la moglie del mio cugino, e anche perché sono la più piccola fra tutti i miei parenti che frequentano la libreria.
Oggi, timidamente, mentre ritiravo un libro arrivato fortunosamente in questi giorni, mi ha guardata e ha chiesto "scusa se te lo chiedo, ma tu che mestiere fai?"

Domanda faticosissima per me.
Ho smesso da un po' di dire che faccio la commessa (lo riservo solo a quelli con cui voglio veramente tagliare corto) perché altro che commessa, qui ormai ho una gestione di lavoro fra ordini, fatture, vendite on line, contabilità e tutto il resto che sembro un'imprenditrice d'assalto più che una biondina cortese che accosta i colori dei fiori creativamente.
Ora dico che lavoro per un'azienda fiorentina, cosa che sminuisce un po' meno la quantità di cose che faccio dalla mattina alla sera nel magico mondo delle candele.
Oggi, dopo aver passato tutta la notte a bestemmiare su quanto è arrugginito il mio francese e su quanto (quanto, quanto, davvero!) vorrei parlare tedesco, ho alzato il capino e ho detto "faccio la traduttrice".

La mia prima volta.

domenica 24 luglio 2011

q.b.


Adoro queste giornate calde calde e con il vento forte: sembra di essere al mare, quando non puoi nemmeno leggere perché le folate ti scompigliano le pagine del libro e ti mandano i capelli davanti agli occhi. Qualcosa che c’è in quest’aria che corre ribelle di qua e di là mi rende allegra: tutto mi sembra a portata di mano, tutto mi sembra seguire questa specie di onda. Anche l’edera che cresce a tutto spiano senza decidere che direzione prendere, anche imbastire un panino alle tre del mattino mentre finisco una traduzione e nel frattempo sento un disco dei Flaming Lips. Anche i miei vicini misteriosi che non protestano mai per la musica alta. Non mi avevano detto che a vivere nei condomini si sperimentano tutti quei quotidiani nervosismi che rendono le persone insofferenti verso la minima sciocchezza? Io i condomini non li vedo mai e nemmeno li sento, a parte la famiglia indiana del pian terreno che si mette per strada a bere e chiacchierare e mangiare roba che profuma di spezie piccanti.

La felicità, o qualsiasi cosa a cui mi piaccia attribuire questo nome, è una cosa fragile: un’alchimia strana e perfettamente incomprensibile fatta di clima mite, tè freddo molto dolce, mattine in cui si può dormire, e poi mattine in cui ti svegli all’alba per fare cento cose, lavori interessanti, lavori stancanti, persone che ti danno notizie sensazionali, serate in cui ti metti i sandali e fai 40 minuti di macchina per andare a una festa dove si balla fino a tardi, e serate in cui stai a casa a piedi scalzi a cucinare una torta mentre ascolti la radio. Un grammo in più di questo o un grammo in meno di quello e tutto può precipitare, scombinarsi e andare all’aria. Quando gli ingredienti si mescolano bene e le cose stanno in equilibrio, bisogna fermarsi, assaporare quel momento, cercare di memorizzarlo, perché se c’è una cosa che ho imparato, se ho una certezza a questo mondo, è che prima o poi la crema impazzirà di nuovo e l’alchimia si guasterà in qualche modo imprevedibile che mi farà sentire ancora sbilanciata da una parte e mi farà stare lì a gambe incrociate sul letto a pensare “che c’è che non va?”.

Quando succede, poi, mi sforzo senza successo di aggiustare quel grammo in più o in meno di quel qualcosa, che proprio non so che sia, ma le ricette sono così, se vengono bene si capisce dall’inizio, correggerle a cose fatte è quasi impossibile.

martedì 5 luglio 2011

Cream tea


Certo, il viaggio per Oxford porta via lo stesso tempo che cambiare continente, ma quanto me la ricorderò questa trasferta? I progetti, il freddo, il tè, gli Arcade Fire, il sonno nel pullman di ritorno da Londra, le parole.

Una vacanza vera, fatta di parole e musica, quel palco immenso al centro di Hyde Park, il tizio che mi fruga la borsa all'entrata, trova le fragole e me ne chiede una, le italiane, nella folla di locali, che a metà giornata tirano fuori il panino con la frittata, in mezzo all’invidia generale. Il sole tiepido nel parco, mentre per cinque giorni avevo sofferto un freddo che nemmeno io sospettavo di poter soffrire in piena estate, i bicchieri di birra che volano sopra le teste della gente annaffiandoti senza però infastidire troppo, in fondo è vacanza, è un concerto, sto ballando da due ore, sotto i miei piedi c’è un prato e sopra la mia testa cielo limpido e venticello fresco, e dei palloncini che ogni tanto si solllevano.

Sorellanza.

Tornare la sera da un’esperienza assurda al ballo di fine anno di un’università, dove tutti sono in lungo e cravatta bianca, e tu pensi che ti senti felice con la tua giacca di pelle e pantaloni neri, sei felice anche quando ti senti totalmente fuori posto, perché c’è con te una persona che ami e non ti importa del cretinetto ventenne tutto impomatato che ti fa il filo sfottendoti un po’, tanto sei lì con la tua macchina fotografica e la tua isola di pensieri, nelle orecchie hai ancora wake up e quel coro lungo lungo della gente al concerto e poi i giardini del college sono incredibili da come sono belli, così rubi un rametto di lavanda e lo infili nella tasca, per ricordartene, poi, il prossimo autunno quando la ritirerai fuori.

Poco dopo, in un locale del quartiere carino, semi deserto e con le luci basse, parli sottovoce con in mano un bicchiere di vino bianco e ti senti nuda e compresa, ti viene fuori anche un tremore, anche una lacrima, ma serve a capire che ci sono cose che non si allontanano per quanto siano lontane, che ci sono persone che sono sempre come le vorresti, ci sono comunicazioni che non falliscono, che gli anni non appannano.

Torni a casa con una valigia piena di libri, con un vestito blu come la notte, con in testa una specie di geometria, come un sonetto che finalmente trova la rima giusta. Spalanchi le finestre e dai un po’ d’acqua alle piantine e dopo tanto tempo, trovi la voglia di mettere un disco e sdraiarti sul divano, mentre fuori la campana della chiesa segna le ore e il ghiaccio tintinna nel bicchiere.