Finite le incombenze della giornata, archiviate le lenzuola da stendere, i piatti da lavare, il vento che ha scompaginato i fogli, i tulipani viola sopra la tavola; ora la tazza di tisana fuma sopra il comodino, metto un filmetto nel pc, ma ancora non so quale, mi accendo l’ultima sigaretta della giornata.
Dormire è complicato perché mi faccio brutti scherzi. La scorsa notte, per esempio, passeggiavo in una città che amo dove non vado da un po’, e che mi manca tanto. Molte strade buie e molte pozzanghere in giro.
Stereo Notte ha cominciato le trasmissioni con Iron and Wine e poi ha proseguito con Jeff Buckley. A me tutto appare significativo: anche la pioggia nell’unico giorno libero del mese, anche il libro con la costola consumata che si apre a una pagina precisa, e anche questo saltellio sulle corde della mia colonna sonora sentimentale che fa mancare per un istante la gravità nella stanza. Lo annoto mentalmente e poi dico fra me che è solo un’altra cosa da archiviare, e che tanto non importa. Me lo dico così spesso che ho sviluppato una specie di callo, una pelle durissima che si chiama proprio “tanto-non-importa” e che fa la stessa resistenza del mio vecchio giubbotto di pelle quando tanti anni fa feci quel volo in motorino. Il giubbotto distrutto, io nemmeno un graffio.
A me non importa, e quindi mi importa.
Il passato non è lì invano, fa parte del presente. Mi è capitato di ripensarci anche ragionando su cose che non c’entrano (si fa per dire) con me. Tipo le ri-traduzioni di Fitzgerald (cado sempre su questo, lo so). Ora, è vero che ce n’era bisogno, è vero che nella traduzione della Pivano c’erano delle cose da ripensare, come accade a tutte le traduzioni che hanno più di venti-trent’anni. Ma è anche vero che così è entrato nel mio orecchio Fitzgerald, prima che lo leggessi in originale. Forse mi fa meno effetto pensando a The Great Gatsby, ma se penso a Tender is The Night un po’ mi si stringe il cuore a pensare che si possa cambiare quell’inizio largo come un occhio che si apre sulla dolcezza e sui colori tenui e forti della riviera francese. Nostalgica? Non lo so. Non credo, perché poi le nuove traduzioni le leggo e le apprezzo. Non mi pare che si tratti di nostalgia, ma piuttosto di pilastri, di cose a cui siamo un po’ appesi: senza essercene resi conto certe immagini sono lì, come una canzone di dieci anni fa che ti fa pensare a un luogo o a una persona. Le canzoni, poi, si possono ricantare e anche bene, che c’entra.
Ecco, i miei sono pensieri tira e molla.
Mi importa ma non mi importa, mi piace ma non mi piace, è giusto ma anche un po’ sbagliato.
Quando fuori la luce si fa chiara, e il giorno fa capolino, di solito io prendo sonno. Dormo un paio d’ore, a volte tre, poi inizio a rallentatore le attività della mattinata. Adesso è ancora troppo presto. La schiena mi scricchiola, il collo pure, c’è un lavoro che aspetta da troppi giorni di essere finito. Questa settimana è stata tremenda. Lo dico così, per inciso, perché a un certo punto lo devo pur dire, senza sentirmi in colpa perché mi lamento. Io non mi voglio lamentare. Ma quando una settimana è tremenda, c’è poco da fare, l’unica cosa da fare è aspettare che finisca, magari consolandosi con un bel mazzo di fiori sul tavolo, con una pizza e due chiacchiere un po’ più distese, magari anche solo sognando la luce rosa e oro della riviera francese, e i tetti di una dozzina di vecchie ville (che) marcivano come ninfee in mezzo ai pini ammassati tra l’Hôtel des Étrangers di Gausse e Cannes, cinque miglia più in là.
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