Ho ritrovato il quaderno dell’anno scorso.
Fa un certo effetto rileggere le pagine scritte nei momenti di pausa del master, quando cercavo di tenere gli occhi aperti e discutevo con i miei colleghi di come avevamo tradotto quella singola piccolissima parola che però cambiava il senso di un’intera frase, o di un intero mondo attaccato a una frase.
Mi sembra impossibile che sia già passato un anno intero dalla tesi, dall’estate fatta di ricerche di testi e di consigli, dalla tre giorni in Svizzera, quando già sapevo che stavo coltivando una bella illusione.
Adesso traduco, un po’, mi hanno appena pagato un paio di lavoretti giusti giusti per godermi qualche sfizio in più in vacanza, anche se in vacanza non so se e quando ci andrò.
La mia illusione è molto ben nascosta, oggi ne ho discusso in un modo anche troppo franco, tanto franco da impedirmi di pensare ad altro per il resto della giornata. Io ho sempre tradotto, ho sempre scritto quello che pensavo su pagine nascoste in libri di altri in modo che fosse impossibile anche per me ritrovarle, se non per sbaglio. Ho sempre amato le parole, soprattutto le parole altrui. Mi è sempre bastato sapere che coltivavo la mia passione con dedizione e pazienza, senza smettere mai di farlo, senza chiedermi perché o per chi.
Questa cosa non è cambiata, anche se la pazienza a volte vacilla. Ma sento un filo spezzato dentro di me: il momento in cui ho capito che non avrei sopportato altri rifiuti e altri capitomboli ha anche coinciso col momento in cui ho smesso di pensare che nella vita domani le cose potrebbero cambiare drasticamente e ricominciare da capo, come su un bel foglio bianco.
Un nuovo romanzo, una nuova estate da cominciare, tornare su passi abbandonati dieci anni fa, eppure essere in una nuova fase. Avere una nuova casa a cui tornare. Sarebbe questo il mio modo di voltare pagina.
Non sono convinta che mi basti.
Intanto leggo Elizabeth Strout e dormo sempre meno.
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