Passato il Natale, passata l’Epifania, passata la scena della mamma che come ogni anno si nasconde in camera da letto a impacchettare le cose (sempre in ritardo, sempre, mentre io e il babbo aspettiamo a tavola coi crostini fumanti e la fame delle grandi occasioni), passata l’abbuffata di telefonate di rito a parenti lontani, zie monache novantenni, bambini costretti a fare ciao per telefono mentre vorrebbero essere nell’altra stanza a godersi finalmente la play station nuova.
E’ stato lì che i miei pensieri hanno cominciato ad andare per conto loro e ad ovattarsi anche loro: ho pensato al calore, al grande calore che ho intorno e dentro.
A casa ho letto un paio di libri appena ricevuti, mi sono commossa con la musica, ho riordinato i regali nuovi e riletto bigliettini, poi sono andata a letto, con un maglione vecchio che uso per dormire quando fa molto freddo, e mi sono sentita riscaldata da una specie di speranza, debole eppure persistente, che non è lo spirito del Natale, e non è nulla di melodrammatico. Piuttosto è una specie di certezza di sapere che ho fatto tutta la fatica che ho fatto per qualcosa, qualcosa che anche se a prima vista non si vede mi rende più solida, più rispettosa per il mio passato e un po’ meno pessimista per il futuro.
Ho un sacco da fare.
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