Metto braccialetti che suonano e porto sempre i tacchi alti. Anche quando devo correre dietro un treno alle sei di mattina. E non esco mai senza trucco.
Così maschero la mia faccia, sento forti e chiari i miei passi, e ogni movimento che faccio, dallo scrivere un appunto al tranciare di netto rami di plastica e metallo con le tronchesi, fa un rumore di campanellini.
Così mi trovo, anche quando sono persa in motorino nel nubifragio delle quattro su un viale trafficato e buio, in una zona della città che mi ha sempre fatto paura e adesso mi è indifferente. E’ solo un luogo come un altro. E’ dello stesso colore e dello stesso sapore di tutto il resto.
Potrei cadere, perché corro e perché sono distratta, ma è la mia libertà, una libertà piccola ma vera, quel motorino che mi permette allo stesso tempo di sedermi un attimo e di muovermi.
Non mi siedo mai.
Non mi do il tempo nemmeno di pensare che potrei sedermi un attimo.
Qualcuno tenta timidamente di riempire i crepacci che mi si sono aperti dentro, ma non ce la faccio, non sono proprio in grado, né di sedermi, né di pensare che questo sia possibile.
Uno dei miei propositi per il 2009 era smettere di citare continuamente Antonia Byatt. Ma mi sta proteggendo come un nume tutelare, e come il genio nell’occhio d’usignolo, mi permette ancora di desiderare, almeno in sogno.
"I feel as [Christabel LaMotte] did. I keep my defences up because I must go on doing my work. I know how she felt about her unbroken egg. Her self-possession, her autonomy. I don't want to think of that going." (549)
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