mercoledì 12 maggio 2010

Storia della biondina che passa la notte alla stazione di Milano Centrale

La stazione di Milano di notte non è come quella di Firenze, che è sempre piena di gente assurda. Arrivo da Malpensa sotto il diluvio universale, ma proprio un nubifragio, così forte che copre le voci delle poche persone in giro, così forte che copre i miei pensieri e le frasi che leggo sul libro. Di quelle frasi mi arrivano solo i colori, il fruscio verde della gonna di velluto della regina e visualizzo un verde morbido e senza corrispondenza con quello che mi circonda che è uniformemente grigio e lattiginoso di luci al neon. Compro il biglietto. Sono le 11.53. Il mio treno è alle 5.45. Non so dove andare.
Mi dondolo un po' da un binario all'altro, trascinando la valigia rossa, e accendendomi la prima sigaretta della giornata, alla fine decido di rischiare un po' di bionditudine, benché dimessa dopo le prime dodici ore di viaggio, e mi infilo nella stazione della polizia ferroviaria.
Ho addosso un odore dolciastro, credo di essermelo portato dietro dal duty free dell'aeroporto dove ho provato due o tre profumi mentre aspettavo che la benedetta nuvola decidesse cosa fare di sé. Non è sgradevole, ma non è il mio, e lo sento saltar fuori come un coniglio dal cilindro a ogni gesto che faccio.
I poliziotti della Polfer mi accolgono con una gentilezza rara, offrendomi anche bevande calde per superare la notte.
Sono un gruppo di ragazzi giovani, che parlano del futuro e del presente fumando e ogni tanto ridono di una battuta che capiscono solo loro.
In quel silenzio rotto solo dalla costante presenza del televisore con la pubblicità delle mozzarelle (a un certo punto uno dei ragazzi mi ha guardata e ha detto "che faccio gli sparo?") si assisteva quindi alla scena di una biondina appoggiata alla porta dell'ufficio, con un fiore per capelli agganciato al libro che ha in mano, in mezzo a cinque uomini in divisa, che racconta le peripezie del suo viaggio, mentre qualcuno ride e dice "mamma mia ti metteranno sullo show dei record".

La notte si è schiarita e anche la pioggia si è via via diradata. Si sentiva gocciolare l'acqua dalle tettoie e dalle grondaie.
A un certo punto è comparsa una bambina mulatta, vestita di rosa, che camminava con le scarpe di sua madre mentre lei dormiva su una panchina, e mi ha chiesto delle cose a voce bassissima.
Non capivo bene perché sussurrava, e quando le ho avvicinato l'orecchio alla bocca mi ha chiesto delle cose in spagnolo. Allora le ho risposto e siamo diventate migliori amiche. Anche lei aspettava un treno. E non aveva per niente sonno.

Quando ho salutato i miei compagni notturni, alle cinque e mezza, uno stava facendo colazione con un kinder bueno. Me ne ha offerto la metà ridendo.
Un po' mi è dispiaciuto partire, un po' mi avrebbe fatto piacere stare lì e chiacchierare per davvero, senza le frasi di circostanza e senza i ruoli, solo come sarebbe stato parlare con un gruppetto di amici a notte fonda. E senza quel sonno che mi divorava le gambe.
Ma poi il cielo ha cominciato a diventare viola e poi bianco e in treno c'era un bel tepore e non c'era nessuno e allora mi sono appoggiata al sedile e mi sono tolta le scarpe e ho chiuso gli occhi quasi subito, in quell'odore non mio reso più acuto dal corpo che finalmente riprendeva un po' di calore, e mi sono addormentata in mezzo alla nebbia, fuori fitta, dentro un po' meno.

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