lunedì 2 marzo 2009

lividi

Mi importa solo delle parole. Passo le mie giornate a ripercorrere, riscrivere, rileggere, rileggere e riscrivere cento volte, mille volte, parole. Mi importa solo di quello. Mi circondano e riempiono ogni mio spazio. A volte passo minuti, forse ore, ore notturne e silenziose, a guardare i numeri rossi che scorrono sulla sveglia digitale. La mia mente sta immobile e ripensa a tutte le parole della giornata. Di solito ne emergono alcune, come alghe che restano impigliate nel flusso della corrente. E ognuna si allarga a dismisura e si trasforma in qualcosa di solido.
La parola "splendida", nel messaggio di venerdì. Che splende, che è colpita dalla luce, che produce luce, che irradia. Freschezza, salute, giorno. Una parola usata casualmente. Una parola che rivela. Rivela, ri-vela, toglie il velo, svela, rende chiaro. Chiaro. Di nuovo luce. Di nuovo. Posso andare avanti a catena per ore. E' come se fosse tutto intorno, tutto visibile solo che va saputo cercare.
Gli oggetti parlano.
Il piumone da sprimacciare (domani, domani lo faccio) con le sue pieghe soffici che mi inghiottono ogni sera e quel colore, verde, anzi no: verde oliva chiaro. Conosco ogni piega del mio piumone e la so nominare. Le figure natalizie dipinte sulla tazza da tè che continuo ad adoperare anche se è fuori stagione perché è la più grande che ho. Un babbo Natale pieno di riccioli e intarsi rossi che mi guarda dalla porcellana, sopra uno sfondo geometrico di rombi azzurri e bianchi. E sul manico una decorazione di agrifoglio con piccole bacche rosse. Il vaso di vetro martellato a forma di uovo, senza fiori. Le pile di dizionari con quell'aria composta e autorevole che nascondono, fra le pagine, cartoline colorate e foglietti. Voglio essere capace di descrivere tutto con gli occhi chiusi.
Ho migliaia di parole nuove dentro la testa, e usciranno. E non mi importa più di altro.
Se la faccia è stanca, se mi sembra di avere cento anni, anzi, di essere una di quelle tartarughe centenarie che hanno già imparato tutto, tranne come fare a morire, e ripercorrono meccanicamente le stesse azioni ad ogni ciclo vitale, perché fanno parte di loro, del loro modo di interpretare la vita. Mi importa del ricorrere delle parole, che è il mio modo di interpretare la mia vita. Le parole "anch'io" che sgorgano in mezzo alla strada umida e scura e aprono a metà quel buio con un chiarore. "Anch'io" con quel suono duro in mezzo a tante vocali che lo fa sembrare il verso di un uccello. E anche "addolcire" con la doppia e la "c" morbida che già da sola sembra un cioccolatino.
Mi importa soprattutto delle parole che non so pronunciare. Del non saper descrivere l'uomo delle pulizie che lavorava all'alba dietro un vetro smerigliato, e il suo muoversi con lo spazzolone sembrava una danza, e ho creduto per qualche secondo che lo fosse davvero. Del freddo in mezzo alla fronte sul treno gelato delle sei del mattino. Dei capelli corti che non posso più attorcigliare sull'indice. Di tutto il morbido che ho sistemato intorno a me, maglioni, lana, cuscini, fodere di libri. Tutto per non dover parlare della mia durezza. Per non saper pronunciare la mia rigidità. Per attutire i colpi, eppure ho di nuovo le gambe piene di lividi e non so mai come me li sono fatti.



Scendo giù
a prendermi un caffè…
…scusami un attimo…
passa una mano qui, così,
sopra i miei lividi…
…ma come piove bene sugl’impermeabili…

1 commento:

Drogo ha detto...

... e ricomincerà ...

come da un rendez-vous ...

parlando piano tra noi due ...